“Tradizione” e “Territorio”. Quando si parla di cibo, di prodotti, di cucina, queste parole ci salgono alle labbra ormai quasi meccanicamente e non di rado le sentiamo usate con una punta di retorica: sono formule di sicuro effetto e ad usarle – insomma – non si sbaglia mai.
Ma di cosa parliamo davvero, quando parliamo di “tradizione in cucina” e di “cucina di territorio”?
Il libro di Paolo Marchi “100chef x 10anni” sui 10 anni di Identtià Golose - che ieri sera abbiamo presentato a Ragusa insieme ad autorevoli colleghi come Corrado Assenza, Cristina Bowerman e Ciccio Sultano (dentro, per mio onore, ci sono anch'io con la Spremuta di Sicilia) - ci spinge a essere i primi a interrogarci su questo. “Quando si è impegnati a costruire il futuro occorre non dimenticarsi di rivolgere lo sguardo al passato”, scrive Massimo Bottura nella sua prefazione. E ancora: “Dei territori, dei comuni, delle coste, delle montagne e dei pascoli, ogni giorno ci facciamo portavoce e bandiera”.
Ecco, io credo che la “tradizione” sia in realtà l’atto di ricevere, in maniera impropria ed intima.
Impropria, perché di fronte all’eredità che accogliamo tra le mani ci porremo sempre con i nostri occhi, nuovi e grazie al cielo contaminati dal nostro tempo, dalla nostra esperienza.
E intima, perché tra le tante cose di cui è fatta la cucina, questa resta la più importante: prima l’intimità della nostra anima e della nostra memoria, poi quella che cerchiamo con le persone a cui la offriamo.
Ecco, di quel passato a cui volgiamo sempre lo sguardo, in realtà conserviamo essenzialmente una cosa, l’intento con cui cuciniamo: far felici gli ospiti e creare un convivio.
Il “territorio”, poi.
Non c’è dubbio che ognuno di noi interpreta e vive l’espressione del luogo in cui vive e opera.
Attraverso la scelta dei prodotti, innanzitutto: perché anche quando superiamo l’idea, sempre insufficiente, del “chilometro zero”, quello che cerchiamo per la nostra cucina ci è in qualche modo familiare, per motivi storici e culturali, per usanze e costumi. Nel nostro caso, questo è più che mai vero, essendo nati e cresciuti in una terra impregnata di importazioni e contaminazioni, dove tutti coloro che sono approdati ci hanno lasciato qualcosa che oggi è incarnato nella nostra identità e nella nostra quotidianità.
Proprio noi, dunque, non possiamo avere timore di rinnovare questo processo di contaminazione, non limitandoci a prendere atto di quello che ci ha preceduto, purché a guidarci resti il rispetto delle materie: il rapporto tra uomo e materia si nutre di questo approccio in parte istintivo e in parte culturale, che fa parte del nostro modo di essere e del nostro lavoro.
Ma – ancora - tutto questo, il nostro modo di intendere la tradizione e il territorio, come facciamo a farlo arrivare ai nostri clienti, o per meglio dire ai nostri ospiti?
Semplicemente attraverso l’autenticità di quello che siamo: chiunque io mi trovi di fronte, resterò sempre io, con il portato di questa cultura e di questa esperienza, che può essere trasferito solo se mi mantengo lineare e trasparente.
La cucina, del resto, è un linguaggio internazionale, che non ha bisogno di intermediazioni: ogni piatto parla da sé e se potrà essere letto in tanti modi diversi quante saranno le persone che lo mangiano, è giusto che sia così, esattamente come di fronte a un quadro ognuno di noi si lascia colpire in modo differente. Dalla nostra parte, abbiamo il tempo del rito che è proprio della tavola: un passaggio non fugale, lungo, lento, che ci dà la possibilità di raccontare e coccolare e il vantaggio di cercare un rapporto esclusivo con ogni ospite.
La cucina diventa così la possibilità di integrare le culture e di fare convivere intenti differenti, all’unico scopo di cogliere la bellezza del senso della vita: raggiungere la pienezza di se stessi e delle proprie relazione, essere felici.